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Inflazione o Deflazione? Questo è il problema

Si fa un gran parlare di inflazione e deflazione ma, sappiamo davvero di che si tratta?

Sfogliando un qualsiasi manuale di economia troviamo le seguenti definizioni:

  • Inflazione: innalzamento del livello generale dei prezzi
  • Deflazione: abbassamento del livello generale dei prezzi

È ormai chiaro a tutti che il periodo di profondo disagio economico che gli italiani, e non solo, stanno attraversando, è espressione del mai sopito conflitto tra banche e multinazionali, da una parte, e lavoratori dall’altra.

Sentiamo spesso dire che grazie all’inflazione l’economia cresceva. Addirittura, qualcuno azzarda a dire che questo fenomeno provoca un incremento del potere d’acquisto dei lavoratori.

Ma stanno davvero così le cose? Guardiamo più da vicino: si verifica il fenomeno di inflazione o deflazione quando si ha uno squilibrio tra moneta in circolazione e beni prodotti.

L’argomento maggiormente adottato da alcuni osservatori è che durante il periodo di alta inflazione in Italia crescevano i salari e l’economia andava bene.

Occorre però analizzare l’affermazione più approfonditamente. Grosso modo tra metà degli anni ‘50 e fine degli anni ’60 si è verificato il boom-economico, trainato da una richiesta di massa di beni di consumo: elettrodomestici, abiti, automobili ecc. La diffusa domanda era, come sappiamo, conseguenza della distruzione avvenuta nel secondo conflitto mondiale e del successivo dilagare dello stile di vita americano, il quale varcò l’Oceano per mezzo della televisione.

Tutti conosciamo la nozione di base di economia per cui ad una domanda in crescita consegue un diffuso aumento dei prezzi. Questo perché, in genere, le aziende prima di riuscire a produrre a pieno ritmo necessitano di tempo per l’acquisto di macchinari, il procacciamento delle materie prime, ecc. Negli anni in esame il totale delle merci e dei servizi prodotti in Italia era in crescita e così anche i prezzi al consumo. Gli operai iniziarono ad accusare l’erosione dei propri salari, tant’è che questo forte disagio sfocia a fine anni ’60, nelle rivendicazioni sindacali.

Picchetti fuori dalle fabbriche, scioperi e richieste di una paga più congrua erano i motivi di tali agitazioni.

È nel 1975 che, finalmente, si conquista la cosiddetta scala mobile, un meccanismo automatico di adeguamento salariale ai prezzi di consumo, valutati su un paniere di beni variabile ogni anno. Un primo tassello è dunque posto: è vero che negli anni di alta inflazione si sono avuti incrementi in busta paga ma questi, lungi dall’essere automatici, furono conquiste della stagione di lotte che va sotto il nome di “autunno caldo".

Le vittorie ottenute giungono però sempre in ritardo rispetto all'erosione subita e non sono mai del tutto reali. Va da sé che il lavoratore perde comunque qualcosa. Facciamo un esempio pratico: se con 10.000 lire prima dell’alta inflazione acquistavo 5 sacchi di patate, con le stesse 10.000 lire a causa dell’inflazione acquistavo 3 sacchi di patate. Succedeva che i 2 sacchi di patate che l’operaio non poteva più permettersi di acquistare, costituiva un surplus che restava a disposizione dell’industriale, il quale verosimilmente era portato ad esportare il prodotto per andare a recuperare il gap di interessi dovuti alla banca che, come sappiamo tutti, emette solo prestando e solo per la quota Capitale.

Dunque, è evidente che il braccio di ferro è tra salariato e grande industriale costretto, per poter recuperare gli interessi non in circolo nel proprio Paese, ad esportare il più possibile. La scala mobile rappresentò quindi un compromesso per tentare una conciliazione tra due parti sociali, poste in conflitto dal metodo predatorio dell’emissione bancaria.

Lavoratori e aziende non sono nemici naturali, ma divengono portatori di interessi divergenti, in ragione della sovrastruttura che domina entrambi. Verso gli anni ’80, ossia nell’epoca di pieno consumo che quindi tendeva alla saturazione del mercato, è ripresa la corsa all’inflazione, ossia all’erosione del potere di acquisto dei dipendenti. Il motivo era noto: minor capacità di consumo da parte del Paese, più merce disponibile per l’esportazione, dunque, possibilità di sopravvivenza per le aziende che possono recuperare il costo del denaro.

Possiamo dire che l’inflazione artificiale di quegli anni aveva la funzione di prolungare la vita del paziente-industria destinato ben presto all’affanno. In pratica l'inflazione stimola la produzione esattamente come il quantitative easing mantiene in vita le banche. Tale è la dinamica della fase capitalistica industriale borghese produttrice di merci, o come direbbe Karl Marx, tipica del circuito D-M-D.

Nel lungo periodo, però, crescendo la saturazione del mercato il margine di utile cala, e chi può tenta di recuperare il guadagno non più realizzabile sul mercato reale rifacendosi sulla borsa valori. Ciò porta gradatamente verso una sempre maggiore finanziarizzazione dell’economia. È infatti degli anni ’90, l’euforia finanziaria che portò, per i più fortunati, belle soddisfazioni in termini di guadagno capitale.

La delocalizzazione della produzione in paesi a basso costo di manodopera ha permesso, artificialmente, di sostenere il potere di acquisto e dunque dei consumi dei cittadini europei, anche grazie alla maggior velocità di circolazione monetaria, alimentata da sempre nuovi bisogni. Tale accorgimento, unitamente alla borsa valori e alla new economy, ha ritardato il crollo del sistema.

La macchina del capitalismo è però inarrestabile e ciò che oggi nasconde sotto il tappeto è destinato a venire alla luce domani. Una serie di eventi geopolitici rappresenta il tentativo di sopravvivere del sistema: abolizione degli accordi Bretton Woods nel ‘71, Crollo del Muro di Berlino nell’89, allineamento verso i parametri di Maastricht, dismissione della scala mobile nel '92, abolizione della Glass-Stegall nel '99, sono alcuni dei più significativi segnali della metamorfosi del mercato.

Tali episodi, ben lungi dall’essere la causa del disagio attuale ne rappresentano, invece, la conseguenza. Ci si dirige così inevitabilmente verso un sistema di briglie sciolte. Le crisi da sovrapproduzione e/o sottoconsumo fanno il resto. Tenendo alto il livello di disoccupazione, si mettono i lavoratori in concorrenza tra loro, e le conquiste degli anni passati divengono un lontano ricordo. Qualcuno ha definito la globalizzazione come quel processo per cui ci sarà sempre qualcuno disposto a fare lo stesso lavoro per una paga inferiore.

È così che si giunge alla fase del capitalismo finanziario appalesatosi alla massa sotto l’egida dell’euro e dei cambi fissi. Il Capitalismo al suo ultimo stadio macina utili attraverso il cicloD-D di marxiana memoria, e la produzione di beni reali diventa un fattore secondario. Non si vende più ciò che viene prodotto ma si produce ciò che viene venduto, giungendo a uno stato di stagnazione dell’economia reale sempre più asfittica. Il vero utile si trasferisce nel mercato della compravendita di titoli. La deflazione in questo scenario calza a pennello in quanto garantisce, ai possessori di titoli a rendita fissa, tassi certi. A farne le spese, come sempre, la classe produttrice, sulla quale viene scaricato il peso degli oneri occulti, attraverso la compressione salariale. Questo è il volto della deflazione.

Ciò che è mutato radicalmente è lo scenario. Terminata l’epoca-industriale si transita alla fase finanziaria, quella più distruttiva. Il capitale finanziario, alla ricerca di utili, cannibalizza le aziende costrette a chiudere o a piegarsi al sistema di produzione. Le multinazionali, legate a filo doppio con il sistema bancario, non conoscono ostacoli e continuano ad espandersi. In tal modo procede la conquista di fette di mercato, esattamente come negli esiti di una guerra vinta. Un maggiore approfondimento richiederebbe la compiuta analisi di molte variabili a seconda del comparto merceologico di cui ci si occupa, in quanto non tutte le merci hanno lo stesso andamento nella curva dei prezzi. Giocoforza la nostra è una semplificazione che speriamo possa rendere l’idea di massima che occorre per orientarsi nel panorama degli accadimenti odierni.

Con la deflazione si ha un livello generale di abbassamento dei prezzi alla produzione la cui causa è, principalmente, l'abbassamento dei salari. È noto che più si abbassano i salari maggiore sarà la percentuale di reddito spesa nei bisogni primari, e si avrà meno denaro a disposizione per accedere ad altri tipi di consumo. Saranno le aziende maggiormente strutturate e con più propensione all’esportazione, a sopravvivere grazie al continuo contenimento dei costi. È chiaro che il salariato con una busta paga più leggera è in grossa difficoltà a fare la spesa e pagare le rate del mutuo. Per dirla in altri termini: se un venditore di acqua si trova nel deserto, la propria bottiglia la venderà al prezzo che desidera. In definitiva a chi fa bene? Alle banche, che in questo modo, nella corsa agli utili, riescono a ricomprare case, aziende, automobili e via dicendo, sfruttando il potere d’acquisto maggiore che trova, in ultima analisi la sua causa nell’emissione a debito del mezzo monetario.

Storicamente è vero: è sempre stata un’alta inflazione ad erodere il debito pubblico, a sua volta alimentato oltre che dai ricorsi al mercato per finanziarsi, anche alle crisi aziendali o bancarie. Quando queste sono in difficoltà vengono nazionalizzate per scaricare sui cittadini l’onore del risanamento, un esempio su tutti: la vicenda Monte Paschi ma potremmo citare riguardo al passato la vicenda Montedison o la Sip, tanto per fare un piccolo accenno. Ciò che occorre ricordare è che inflazione è sinonimo di aumento dei prezzi. È quindi chiaro ed evidente che aumentando l'inflazione, come nei periodi di guerra, si deprima il debito pubblico, ma ciò avviene attraverso il prosciugamento del potere di acquisto e dei risparmi sull’altare del mercato. Essendo la moneta emessa solo a prestito è logica la corrispondenza denaro=debito. Togliendo denaro dalla circolazione diminuisce il debito pubblico.

È una prospettiva tutt’altro che rosea. I concetti di Inflazione e deflazione, se vengono visti come baluardi del conflitto tra classe produttrice (aziende/lavoratori) e classe di chi vive di rendita parassitaria, risultano molto più chiari. Sarebbe più corretto parlare di giusto prezzo delle merci. Una matita non può costare solo 0,1 centesimi, ma nemmeno 5 euro.

Per completare la trattazione verrebbe utile un’analisi sociologica che mostri come è mutata la società. Facciamo qui un breve accenno. Vale la pena ricordare la crisi della natalità, a sua volta provocata dal cambio della struttura famigliare, cagionante un minor tempo a disposizione della donna da dedicare alla famiglia. Ciò ha portato anche a conseguenze nei consumi diffondendo ad esempio l’uso dei surgelati e dei fast food. Insomma di tutto ciò che permettesse di risparmiare tempo.[1]

La bassa natalità porta ad avere meno contribuenti in grado di ripagare i debiti, ciò fa luce sui cambiamenti sociali in atto. È sempre per esportare la quota di debito che le potenze dominanti impongono, ad esempio, trattati come il CETA, che obbliga l’acquisto di determinati prodotti.

Continuando ad utilizzare la metafora della guerra possiamo concludere che: l'inflazione corrisponde alla corsa agli armamenti, mentre la deflazione alla sua fase distruttiva.

Il tutto viene combattuto facendo circolare titoli astratti che rappresentano il concreto debito dei popoli, la cui capacità di ripagare, in questo sistema economico/monetario, è data dalla forza lavoro. Per questo motivo il Prof. Giacinto Auriti auspicava una moneta di proprietà dei popoli, e non di Banca o di Stato, ossia dei gruppi di potere.[2]

 

19.09.2019, per Scuola di Studi Giuridici e Monetari "Giacinto Auriti"

Dott.ssa Sara Lapico

 

note


[1] Luigi Marrone, L’evoluzione dei consumi alimentari in Italia dal Secondo dopoguerra ad oggi.

[2] Giacinto Auriti, Proprietà di Popolo, Ed. Solfanelli.